Phubbing e Nomofobia

Phubbing” è un termine nato nel maggio del 2012. Un’agenzia pubblicitaria, la McCann, aveva creato una vera e propria campagna per trovare  un termine che indicasse il comportamento di chi si isola immerso nel proprio telefono cellulare. Dalla fusione delle parole “phone” (telefono cellulare) e “snubbing” (snobbare), nacque appunto phubbing.

Staremo quindi sempre di più tutti con il capo chino sui nostri dispositivi mobili? No, molto di più: il futuro infatti ci riserva probabilmente la cosiddetta “realtà aumentata”:  degli “occhiali” in cui realtà e mondo digitale si fonderanno nello sguardo attraverso un sofisticato dispositivo. Qualcosa che non potrà che modificare radicalmente la nostra stessa percezione.

Cosa sono

Il phubbing non è solo una moderna forma di maleducazione, è a tutti gli effetti una forma di dipendenza. Più banalmente viene letto come un attacco personale sottile e potente a chi ci sta vicino. Il messaggio è infatti “tu non esisti” oppure “quello che stai dicendo non è più importante di quello che sto facendo”. Può portare all’impossibilità di rinunciare alla droga delllo smartphone, anche davanti all’evidenza dei danni che si subiscono. Anche se si perdono clienti o amici che si sentono ignorati o non ascoltati, schiavi di una simile dipendenza, Ci sono professionisti che si rassegnano, senza potervi porre rimedio, alla perdita di clienti . E persone di ogni età che sono per questo evitati o ghettizzati da amici e partner. Il malato di phubbing può anche essere messo di fronte all’evidenza della propria dipendenza, e ciò nonostante non essere comunque in grado di gestire la propria compulsività.

Al phubbing si affianca la “Nomofobia” o “NO Mobile Phone PhoBIA”, termine che viene impiegato per descrivere una condizione psicologica che può svilupparsi in tutti i soggetti che manifestano l’irrazionale paura di rimanere privati dell’uso del proprio smartphone.

Alcuni autori la descrivono come la condizione caratterizzata dalla presenza di sentimenti di malessere, ansia, nervosismo conseguenti al rimanere non più in contatto virtuale tramite il proprio mobile phone. Tali sentimenti possono arrivare addirittura alla comparsa di ideazione suicidaria.

L’emergenza della problematica sta assumendo proporzioni preoccupanti, a livello mondiale. La presenza di specifici disturbi, quali la fobia sociale, disturbi dello spettro ansioso, il disturbo da attacchi di panico sembrano anch’essi fattori potenzialmente precipitanti il manifestarsi di sintomi di tipo nomofobico.
Non è facile ovviamente riuscire a differenziare un soggetto che diventa nomofobico a seguito di una dipendenza da smartphone, da un soggetto in cui la nomofobia diviene il fattore precipitantedella comparsa di una patologia concomitante.

Ci sono anche pubblicazioni scientifiche (Grieve, Lang e March, 2021) in cui è emerso che pazienti affetti da disturbo narcisistico di personalità siano maggiormente inclini a prediligere le relazioni digitali rispetto a quelle personali, rinforzati dal bisogno di supportare la propria autostima (tanto ostentata quanto fragile) attraverso la sponsorizzazione della loro immagine sui social network. Anche se gli interlocutori sono spesso lontani dai propri interessi lavorativi e personali. Ma anche, come anticipato nel 2020 da Schlosser, perchè per queste persone le interazioni online sono vissute come molto più controllabili e quindi più rassicuranti ed attraenti rispetto all’esposizione diretta al proprio interlocutore.

Come possiamo capire che siamo a rischio di Nomofobia e quindi di Phubbing?

Tra le caratteristiche comportamentali riscontrabili in tali soggetti, si annoverano:

  • Uso regolare del telefono cellulare ed il trascorrere molto tempo su di esso (anche oltre le 10 ore al giorno)
  • Impossibilità a rinunciare al dispositivo, anche in circostanze in cui diventa motivo di critica, scontro o derisione.
  • Esperire vissuti di ansia e nervosismo (craving) al solo pensiero di essere privati del telefono cellulare
  • Atteggiamenti evitanti o aggressivi verso chiunque provi a distrarre o a sottrarre il cellulare
  • Monitoraggio costante dello schermo del telefono
  • Evitamento di qualsiasi circostanza in cui non sia disponibile una connessione e/o la possibilità di ricaricare la batteria
  • Uso dello smartphone in posti poco pertinenti (convivialità, spettacoli, sport, centri benessere, intimità, ecc.)
  • Sensazione di benessere durante l’uso del dispositivo.

È importante ricordare che esistono alcuni strumenti, validati scientificamente, utili per valutare il grado di “Nomofobia” ed eventuali tendenze alla dipendenza da smartphone:

  • Il Nomophobia Questionnaire – NMP-Q è un test ideato da Caglar Yildirim, dell’Università di New York, composto da 20 items, su scala likert a 7 punti volti a determinare il livello di Nomofobia. I punteggi compresi tra 0 e 20 indicano assenza di Nomofobia, quelli compresi tra 21 e 60 un livello lieve; quelli tra 61 e 100 indicano una Nomofobia moderata; mentre i punteggi con valore compreso tra 101 e 140 stanno a indicare un grave livello di Nomofobia (Mir et al.; 2020).
  • Il Questionnaire of Dependence of Mobile Phone/Test of Mobile Phone Dependence – QDMP/TMPD è un test utile per determinare il grado di dipendenza da smartphone, composto da 22 items raggruppati in 3 gruppi relativi ad astinenza, mancanza di controllo/uso problematico e tolleranza/interferenza (Vezzoli et al.; 2021). 

Dentro il fenomeno

Ma possiamo permetterci anche di fare qualche riflessione diversa su questo fenomeno, provando ad esplorarlo oltre che giudicarlo.

  1. La prima considerazione inevitabile è che il creare dei limiti e delle regole, insomma combattere i modo diretto il phubbing ha avuto, fino ad ora, dei risultati sostanzialmente fallimentari. Non siamo in grado nemmeno di evitare efficacemente la vera e propria carneficina derivante dall’uso dello smartphone mentre si guidano automobili e addirittura motocicli. È quindi difficile immaginare di riuscire nell’impresa quando non è nemmeno in immediato pericolo la salute e la stessa vita delle persone. Le regole costrittive, paradossalmente, stimolano ribellione e dipendenza. Se non addirittura il piacere di infrangerle.
  2. Incredibilmente, di fronte ad un sostanziale impoverimento della comunicazione interpersonale in un’epoca apparentemente dominata dalla comunicazione, la comunicazione digitale diventa, tristemente, una forma di comunicazione possibile. Risulta di fatto più facile trasmettere informazioni con dei dispositivi piuttosto che con la parola. Inviando dei messaggi ci sono più possibilità che l’informazione arrivi, che ne resti una traccia, che si possa almeno rileggere qualcosa con più attenzione. La comunicazione digitale evidenzia il fallimento della comunicazione analogica, ossia il flusso delle emozioni, degli atteggiamenti, del proprio vissuto tra due individui in contatto.
  3. L’uso dei messaggi vocali, che sembrano una cosa del tutto assurda quando è ormai possibile telefonare senza costi, evita, per assurdo, uno dei peggiori ostacoli al dialogo, l’abitudine di non lasciare parlare l’altro ed interrompere senza aver ascoltato con un minimo di attenzione. Basta vedere un qualsiasi programma televisivo per rendersi conto di quanto sia diffuso il parlare addirittura in contemporanea rendendo inefficace qualsiasi scambio. Se si manda un messaggio vocale, in un modo o nell’altro si dovrà ascoltare, senza potere interrompere.
  4. Non è difficile accorgersi che abbiamo infatti perso la capacità di ascoltare piuttosto che di parlare, di avere attenzione per i propri sentimenti, per quello che l’altro esprime con il tono di voce, con il linguaggio del corpo. Se si deve scegliere la giusta emoticon, la cosiddetta faccina, almeno ci dobbiamo chiedere che emozione proviamo, altra abitudine dimenticata. Siamo anche costretti a leggere o rileggere quello che viene digitato, mentre non siamo costretti ad ascoltare con attenzione quando qualcuno parla. Insomma, paradossalmente, la comunicazione digitale è un modo alternativo seppure limitato per poter almeno comunicare in un mondo sempre più superficiale e nevrotico. Una medicina amara all’alienazione dell’uomo. Una gamba artificiale non è una gamba, ma è meglio che non averla proprio.
  5. L’impoverimento e l’omogeneizzazione dei contenuti, l’assottigliarsi delle differenze politiche, culturali, religiose invitano inevitabilmente all’enfasi, all’eccesso. Superare i limiti nel linguaggio, nelle immagini, nei video è l’unico modo per avere consenso ed attenzione. Bisogna colpire e stupire, e non potendo differenziarsi nei contenuti si cerca di farlo nella modalità espressiva. Le limitate abilità comunicative fanno anche si che gli scontri verbali passino più facilmente dalle parole ai fatti, con intensificarsi di atti violenti. Le tante manifestazioni di ribellione al sistema dominante, che si esprimono anche nel fenomeno degli haters (quelli che odiano), dei troll (quelli che mettono zizzania) o altro ancora non sono che la dimostrazione lampante che non ne esistono alternative: la cosiddetta “controdipendenza” è solo la faccia meno evidente della dipendenza assoluta. Vivere contro qualcosa significa vivere nel culto costante di quel qualcosa, che diventa un riferimento perenne. Qualcosa di molto diverso da auto realizzazione, differenziazione ed autonomia.
  6. La comunicazione digitale è anche una perfetta alleata del desiderio di controllo, altro imperativo contemporaneo. Per sua natura è una comunicazione che consente molto più controllo sulla spontaneità e sulla creatività, che vengono invece vissute come pericolose ed ingovernabili. Ed allo stesso modo aiuta a non vivere il presente in pienezza, a non godere di ciò che si prova al momento, a non vivere momenti anche magici. Il piacere di un tramonto viene sostituito dalla previsione di un consenso per la bella foto fatta al tramonto con il cellulare. L’attenzione totalizzante per gli altri e la ricerca di approvazione altrui si sostituisce all’attenzione per il proprio mondo interno, per la propria unicità.

In conclusione quindi, piuttosto che combattere o combattersi perché dediti al phubbing, meglio provare ad esplorare le motivazioni più profonde che ci portano a rifugiarci nello smartphone. A chiederci dove siamo arrivati nel culto dellla superficialità e nell’alienazione. Meglio provare faticosamente a farci delle domanda che peggiorare la situazione giudicandosi, ricercando consapevolezza e senso, non esitando nel richiedere il sostegno di uno psicoterapeuta. Potremmo scoprire qualcosa di prezioso, a condizione di riuscire ad essere un pò più attenti e gentili verso noi stessi, piuttosto che inutilmente e ferocemente giudicanti.