Il senso di colpa non è qualcosa di “negativo”. Per alcuni autori, come Bert Hellinger, il padre delle Costellazioni Familiari, è addirittura una guida, e non va quindi evitato, ma utilizzato come una bussola per espandere la propria coscienza. Hellinger scrive di come l’assenza di senso di colpa ha, per esempio, reso possibile ai nazisti il perpetuare indicibili stermini.
Cosa succede quando ci sentiamo in colpa? Come si gestisce il
senso di colpa? E quali sono i meccanismi che lo animano?
Il punto di partenza è nella costruzione di una relazione di aiuto. Ci sentiamo infatti in colpa quando immaginiamo di non aver fatto abbastanza per chi vogliamo aiutare. Aiutare, come sappiamo, ha un obbligo insuperabile: deve esserci una richiesta, ad esclusione dei casi in cui manca la capacità di intendere e di volere. La richiesta deve essere specifica e dettagliata. Diversamente sarà una richiesta infinita ed indefinita, circostanza che rende chiaramente impossibile soddisfarla. Purtroppo questo aspetto può sfuggire nella vita quotidiana. E quindi possiamo sentirci facilmente inadeguati nel soddisfare quanto richiesto senza renderci conto che ci viene di fatto impedito. Siamo in realtà vittime di una, fosse pure inconsapevole, manipolazione. Una richiesta infinita ed indefinita ci invita solo ad aumentare i nostri sforzi senza capire che non raggiungeremo mai alcun risultato definitivo per l’altro. Sarà impossibile definire se quanto ci è stato chiesto è stato ottenuto. E ci sentiremo, inutilmente, in colpa.
Scopriamo quindi che stimolare il senso di colpa può essere un potente strumento di controllo consapevole o inconsapevole. Ci si fa vittima per stimolare qualcuno al salvataggio o peggio all’obbedienza. Senza, in realtà, aiutare nessuno, perché si è minato nell’altro la fiducia in se stesso ed il senso di responsabilità rispetto al proprio bisogno. Impedendo e non stimolando l’attivazione delle proprie risorse personali.
In casi estremi la violazione di questi principi può avere tragiche conseguenze. Immaginiamo un amante che comprende che l’amato non corrisponde più i suoi sentimenti. Una frase come “se mi lasci mi uccido” non è innocente. E se non si risponde con fermezza e si immagina di impedire il peggio cedendo al ricatto, si innescano meccanismi psicologici pericolosi. Chi “ricatta” si conferma che non ha responsabilità della propria vita, in una violenta auto svalutazione, cedendo all’altro un potere sulla propria esistenza, tornando ad essere un bambino piccolissimo la cui sopravvivenza dipende esclusivamente dal genitore che lo accudisce (o che non lo ha accudito). L’altro che accetta inconsapevolmente questo drammatico ruolo non si rende conto di aver accettato il ruolo di un genitore con caratteristiche onnipotenti, un ruolo che, ovviamente, non potrà mai sostenere e nel quale inevitabilmente fallirà, rinforzando l’angoscia dell’abbandono nell’altro. Il senso di colpa diventa quindi un prodotto del delirio di onnipotenza. Se crediamo di essere depositari della felicità o infelicità di qualcuno possiamo riflettere sul come siamo arrivati ad una simile conclusione.
Ed ancora si potrà osservare, in alcune famiglie, di come chi ostenta sacrificio, malanni, incapacità, sofferenza riesce a stabilire un vero e proprio potere sugli altri. Nella “Isola di Arturo” Elsa Morante descrive mirabilmente questa “Madre sacrificale”. Con il senso di colpa tutti i familiari vengono tenuti sotto scacco, non osando affrontare il proprio senso di colpa per sottrarsi.
Il dolore, quello dello spirito, è una componente inevitabile della vita. Come scriveva Mario Mastropaolo è molto diverso dalla sofferenza. Il dolore può essere straziante, ma prima o poi finisce, come tutte le cose del mondo. La sofferenza è invece il tentativo di evitare il dolore, del prenderne coscienza ed attraversarlo. A differenza del dolore, la sofferenza può durare per sempre.
A nessun essere umano è dato il potere di evitare il dolore esistenziale. Si può sostenere, accompagnare, condividere e molto altro, ma non evitarlo. Non possiamo ovviamente evitarlo nemmeno ad un altro. Il dolore fisico, oltre che quello emotivo o spirituale è lavoro quotidiano per medici, chirurghi, psicoterapeuti. Nella loro formazione il passaggio più difficile è proprio quello di accettare la propria fondamentale impotenza. Accettando che si può fare tutto il possibile nel combattere la malattia, e che si può vincere o perdere. Ed anche che senza la collaborazione del paziente si può fare molto poco. Perchè spesso siamo noi i peggiori nemici di noi stessi. Senza questa umiltà e cedendo ad una idea di onnipotenza, il senso di colpa, l’idea che tutto è possibile volendolo, li devasterebbe ogni giorno, rendendo poi impossibile operare serenamente, nei limiti della scienza e della coscienza.
Infine, se scegliamo di rifiutarci, di non fornire aiuto o di darlo in parte – valutando le nostre competenze, possibilità e disponibilità – poi in qualche modo faremo i conti con noi stessi. E potremmo anche esplorare, se necessario, i motivi che hanno informato la nostra condotta. Aiutare è possibile. E ci eleva, da valore alla nostra appartenenza all’umanità. Meglio se siamo presenti a quello che facciamo. E decidere le modalità con le quali vogliamo essere utili al prossimo. Usando le parole di Confucio:
Dai un pesce ad un uomo
e lo nutrirai per un giorno;
insegnagli a pescare
e lo nutrirai per tutta la vita.